Paura del fallimento

Ora ce l’ho quel passo, ho la mia soluzione. Certo che è un bel boulder proprio lassù, e anche dopo non è che molli del tutto, ma con un po’ di calma lo posso gestire. Sotto? Sotto è ok, scala bene, respira, pensa a divertirti.
Scommetto che un po’ tutti vi siate trovati almeno una volta con un dialogo interiore come il mio. A guardare ogni metro, rievocare ogni tacca e appoggio. Le scarpette già a i piedi e la megnesite liquida che asciugandosi copre le mani di sottile polvere bianca. Ancora un paio di respiri, controllo il nodo un’ultima volta e ci sono. ”Ale, parto..” Ma dentro di me qualcosa non va, la mente non è libera, i pensieri si incastrano tutti esattamente in quell’allungo al verticale brutto e già dalle prime prese non sono carica come dovrei. Mi costa fatica ogni movimento. Più fatica di quanto mi sia mai costata. Sono ai primi passaggi e già i miei pensieri sono lassù, minacciosamente attendono al varco. Il varco del grado, la paura di fallire. Ho caricato così tanto questo momento di aspettative che ora devo portarmi tutto il peso di questo fardello attaccato all’imbrago. Arrivo sotto il passo chiave, lo desidero davvero, è l’ultimo tentativo e poi per quest’anno non se ne parla più. Mi concentro e ripenso a dove mettere i piedi, a come andare dinamica e precisa a quel verticale. Respiro, devo andare. E se non lo libero?
Eccoli di nuovo! Ancora affollano la mia testa. Di solito, quando sono in difficoltà mi concentro solo sul respiro: ascolto la mia pancia spingere contro l’imbrago, rallento il ritmo, presto attenzione all’aria che entra ed esce. La immagino colorata e la vedo fluire attraverso naso e bocca. Alzo i piedi, vado decisa al verticale … … lo prendo! Ma non lo tengo, e ancora una volta giù. Cado. Assieme a me cadono l’aspettativa, il sogno, il desiderio, e cadono anche i cattivi pensieri. Mi sento quasi liberata, non dovrò più provarlo per quest’anno. Ale mi cala a terra e mentre guardo l’ultimo rinvio passato, la corda a metà parete sembra quasi una mutilazione. Dentro di me si avvicendano sensazioni contrastanti. Sono delusa perché questo salto di grado non l’ho fatto, me ne torno a casa senza nulla da festeggiare. Sono felice perché almeno per ora non dovrò riaffrontare quello stato d’animo di incertezza e aspettativa che rubava il posto al divertimento.
A distanza di qualche mese ho voglia di pensare un po’ a quella giornata e decido di cercare ispirazione tra le pagine di un libro di Dave McLeod. Avevo già letto “ 9 out of 10 climbers make the same mistakes” e ricordavo perfettamente come lui spiegasse questa situazione, chiamandola letteralmente paura di fallire. Da un punto di vista culturale, noi occidentali siamo spinti ad interpretare negativamente qualunque forma di fallimento: non sei stato all’altezza. Volendo analizzare in modo costruttivo la stessa situazione, potremmo sforzarci di considerare il fallimento uno step indispensabile nel processo di miglioramento della nostra performance. Se è normale ambire al successo personale nel lungo termine, è pur vero che temporanei fallimenti sono situazioni imprescindibili per arrivare davvero a migliorare noi stessi, nel modo più profondo. Mc Leod ci dice: “In arrampicata la paura di fallire è il vero fallimento nella realizzazione del nostro potenziale personale”.

Ma come si affronta la paura di fallire?
Dave ci suggerisce qualche consiglio su come lavorare sulla nostra abilità di affrontare il fallimento. “Mettersi deliberatamente in quelle situazioni che ci espongono alle nostre debolezze, e che ci mettono in difficoltà. Dire agli altri quali sono i nostri obiettivi e dire quando vorremmo raggiungerli, non importa se li raggiungeremo o meno.” Mc Leod è per la terapia d’urto, che a suo parere avrà l’effetto di lasciar andare lo spettro del fallimento. Nella sua analisi pragmatica emergono vari lati positivi che un fallimento porta con sé: “attraverso il fallimento saremo in grado di vedere i nostri errori sistematici, tenerli a mente ed eventualmente superarli un po’ alla volta. Attraverso il fallimento in pubblico (spesso ciò che realmente ci preoccupa), apriremo noi stessi ai consigli di amici e partner di arrampicata, imparando qualcosa di nuovo sulle nostre abilità”. Sono convinta che togliere dai nostri imbraghi anche solo pochi grammi di paure, timori e ansia da prestazione, sarà una chance in più per raggiungere i nostri obiettivi. Facile? Non direi, e neppure immediato. D’altronde un traguardo regalato non ha mica lo stesso sapore di uno sudato e agognato per mesi!


In queste pagine che vi invito a leggere personalmente, ho trovato un enorme paragone con il mio lavoro quotidiano con gli sportivi. Un infortunio è per molti un fallimento. Il senso di frustrazione non è molto diverso da quello che si prova quando si fallisce in un progetto. Con Mc Leod condivido di certo la convinzione che qualunque sia il motivo della nostra frustrazione, fisico o psicologico, analizzarlo e affrontarlo sia una vera opportunità, che ci permetterà di diventare più forti di prima.
Ciao Claudia,
Mi è piaciuto molto il tuo articolo.
Io la chiamo “mente sportiva”; quella che ti permette di provare, volare, riprovare, volare ancora, senza paura di fallire.
Ti aiuta anche negli infortuni, quando la via della guarigione è davvero dura, ed avere un atteggiamento sportivo diventa il miglior alleato per il lavoro del fisioterapista.
Hai ragione, ci si impiega un bel po’ a raggiungerla, ma regala grandi benefici.
Sono convinto che per ottenerla, nell’arrampicata, sia necessario:
– eliminare la “balla”: “arrampico per divertimento, non mi interessa migliorare” (quanti se ne sentono in falesia…);
– scalare con persone “sportive”;
– non allenarsi in gruppo, ma in pochi e con chiari obiettivi;
– scegliere falesie competive, che ti permettono voli sicuri;