Viaggio negli USA – parte prima

Lo scorso settembre siamo tornati negli Stati Uniti per il nostro terzo viaggio arrampicatorio. Mentre nel 2011 e 2013 eravamo stati in Yosemite e altri parchi famosissimi come Indian Creek e Zion, quest’anno la nostra attenzione si è spostata verso mete meno conosciute da noi europei, ma piuttosto care ai local statunitensi. Così, guida della High Sierra alla mano, abbiamo pianificato un giro ad anello della zona sud della Sierra Nevada, senza escludere un’ultima tappa ancora una volta in Yosemite. Ritmi ed esigenze di questo viaggio sono stati un po’ diversi dal solito visto che con noi sono venute la nostra bimba di quasi due anni e una fantastica nonna che ci ha permesso di fare un altro viaggio con un bel po’ di aria sotto i piedi, come piace a noi.
Noleggiato un camper per 3 settimane siamo partiti da San Francisco con prima tappa a The Needles. Alla fine di una strada sterrata di qualche chilometro abbiamo parcheggiato il camper in un “campeggio” che di tale aveva solo il cartello d’ingresso. Spesso negli USA i campeggi sono ben diversi da quelli italiani, tant’è che si tratta piuttosto di zone designate alla permanenza notturna che come unico servizio hanno il wc immerso nel bosco (un bel buco per terra racchiuso da 4 mura di legno e un tetto). Con un ora a piedi si raggiungono i famosi Needles (aghi): guglie granitiche che d’improvviso svettano dal bel mezzo della vegetazione. Gli itinerari non sono troppo lunghi e i climber più assetati di roccia possono scalare più di una via al giorno, ma il granito è di una qualità strepitosa. Fessure perfette per tutti i gusti e dimensioni, esposte a sole e ombra, rendono questo posto un perfetto parco giochi per climbers.
E proprio perché non posso resistere decido che sarò io a inaugurare questa vacanza. La fessura di Air Interlude è un incastro di mano e piede perfetto per la mia misura. Bastano tre lunghezze per mettermi seriamente alla prova. Abituata a vie alpinistiche in dolomiti, dove la solidità della roccia non è di certo paragonabile al granito californiano, dovrei sentirmi tranquillizzata da queste fessure da sogno. La fatica invece che l’arrampicata di questo tipo ti richiede, è davvero uno sforzo in grado di svuotarti nell’arco di pochi metri. Noi europei nasciamo con le tacche sotto le dita piuttosto che con i polsi avvinghiati e contorti tra due pareti di roccia liscissima separate solo da pochi centimetri di aria. Imparare a scalare in fessura è come ricominciare da zero. Persino i muscoli che usi di più sono diversi: mai provato ghisa ai palmi delle mani?
Nonostante la fatica siamo gasati da quest’inizio strepitoso e ci fiondiamo subito sulla parete di fronte dove Ale trova pane per i suoi denti con The Don Juan Wall. Le difficoltà qui sono decisamente maggiori, ma ciò che accomuna entrambe le salite è l’estetica pazzesca degli itinerari e il panorama mozzafiato che ci circonda. Al di là della parata di guglie che si avvicendano, solo boschi e verde. Nessun insediamento umano a parte il rudere di un rifugio che era posizionato sulla guglia più alta. Una targa, alla base della scala carbonizzata che porta alla cima, dice che un tempo, prima che il rifugio fosse bruciato da un fulmine, una signora viveva in quel nido d’aquila di pochi metri quadrati e cucinava la colazione per i climbers di passaggio. A ricordarci che siamo sulla terra però arriva un aereo da caccia in esercitazione di volo: in pochi secondi il frastuono rimbomba nei timpani e l’eco rimbalza sulle pareti attorno a noi mentre saetta in volo rovesciato sopra la nostra testa e in mezzo a due guglie distanti tra loro meno di 100 metri. All’orizzonte, verso nord-est, il verde delle foreste è interrotto da un profilo di montagne più alte, che sembrano fatte di sabbia per il colore giallino che le caratterizza. E’ la cima del Mt. Whitney. Ma prima di rivolgere a lui la nostra attenzione decidiamo che qualche giorno questo posto lo merita davvero, e verso sera siamo di ritorno al camper, con i progetti per l’indomani già in tasca.
Ahimè non avevo fatto i conti con lo scarso allenamento delle mie caviglie alla tecnica di incastro e la mattina dopo quasi non appoggio il piede sinistro per terra. Troppi ankle-twist hanno infiammato brutalmente il mio piede così sono subito costretta a un breve stop. Ma con un buon bendaggio e qualche esercizio di rinforzo della caviglia nell’arco di qualche giorno ho rimesso le scarpette!
Questa breve pausa è l’occasione perfetta per tornare al Sequoia National Park, dove la magia delle sequoie secolari ci lascia ancora una volta senza fiato. La strada che porta al parco già di per sé vale la deviazione dalla nostra rotta arrampicatoria. Poco a poco, guardandoti attorno, inizia a notare che nel fitto bosco compaiono degli alberi con una corteccia strana: rossa e molto spessa, che sembra le pelle del viso di un vecchio marinaio. D’un tratto vedi la prima vera gigante sequoia, e non puoi non rallentare la corsa per guardare meglio e ti rendi conto che ce ne sono tantissime, tutte enormi e bellissime nella loro imponenza. Ma ciò che davvero toglie il fiato sono i giganti che stanno all’interno del vero parco. Se il Generale Sherman ti impressiona per i quasi 11 metri di diametro della sua base, tante altre attorno ti lasciano altrettanto stregato. La natura resta sempre, ufficialmente, il mio artista preferito.
Quando ripartiamo dal parco è tardo pomeriggio e i raggi del sole filtrano deboli tra le chiome… le praterie di erba gialla sembrano dorate e il fruscio del vento che gioca con i rami degli alberi è un suono che ad occhi chiusi potresti ascoltare per ore. Puntiamo il camper verso sud, e con un’impervia strada di montagna che ammette al massimo mezzi lunghi 25 piedi (per un pelo! Siamo proprio 25!) ci allontaniamo dai monti e dirigiamo verso Lone Pine. Il paesaggio cambia radicalmente nell’arco di poche decine di chilometri e ci troviamo nel deserto. Dal finestrino entra un’aria infuocata e la strada che si perde a vista d’occhio è circondata solo da arbusti in fiore. Enormi trucks (camion che doppiano i nostri tir per dimensioni!) sfrecciano sulla lingua d’asfalto che sembra liquefarsi in lontananza, e come noi puntano verso Lone Pine. (continua…)